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I “crediti di dubbia o difficile esazione” e le scelte in sede di calcolo del FCDE

Uno degli adempimenti più importanti di tutta la contabilità armonizzata è la quantificazione del fondo crediti di dubbia esazione; si tratta di un calcolo cruciale, finalizzato ad individuare il relativo accantonamento, che non deve essere né eccessivo né insufficiente: nel primo caso, infatti, si otterrebbe un effetto di compressione della capacità di spesa, a detrimento dell’offerta di servizi a favore della comunità amministrata, pur a fronte di un afflusso di risorse più che sufficiente; nella seconda ipotesi, invece, si finirebbe col ricadere nelle situazioni che il Legislatore ha voluto scongiurare.

In tal senso il principio della contabilità finanziaria di cui all’All. 4/3 al Decreto Legislativo n. 118/2011 offre una serie di indicazioni (punto 3.3) che ogni responsabile finanziario di ente locale ben conosce.

In sintesi, come ribadito recentemente dalla Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Piemonte, nella delib. n. 88/2020/PRSE del 20 luglio 2020, il concetto principale sta nell’individuazione delle entrate “di dubbia o difficile esazione” che, sulla base di principi più generali, sono correlati alla solvibilità e capienza economica dei soggetti obbligati: qui non è, infatti, in discussione la certezza giuridica del credito, né la difficoltà di esazione viene legata a eventuali contestazioni delle pretese pubbliche innanzi al giudice civile o tributario; il principio fa esclusivo riferimento alla certezza “economica” dell’incasso, ed essa dipende pressoché integralmente dalla capacità solutoria del debitore.

Per tali ragioni si giustifica la non soggezione a FCDE dei “crediti da altre amministrazioni pubbliche” (per definizione sempre solvibili, almeno a certe condizioni di sistema valutario), dei “crediti assistiti da fideiussione” (giacché esiste un coobbligato, che dovrebbe vantare una solvibilità maggiore o indubitabile) e delle “entrate tributarie che, sulla base dei principi contabili di cui al paragrafo 3.7, sono accertate per cassa” (perché accertamento e incasso coincidono e, quindi, non può darsi il caso di un’entrata accertata ma poi non incassata).

Di conseguenza, secondo la Corte, è legittima la scelta di considerare, ai fini del calcolo del FCDE, la TARI: ed infatti, pur costituendo quest’ultima una prestazione legalmente dovuta ai sensi della Legge n. 147/2013, presenta un presupposto di imposta integrato dalla semplice “disponibilità” di un immobile o di un’area, destinati ad un utilizzo suscettibile di produrre rifiuti; ne consegue che il soggetto passivo dell’imposta potrebbe anche risultare nullatenente o altrimenti incapiente, facendo così integrare al credito verso di sé gli estremi della posta di “dubbia o difficile esazione” come prevista dal principio contabile.

Nel caso dell’IMU, invece, è corretto tenerne conto nella costituzione del FCDE solo per eventuali rettifiche e per il contrasto all’evasione; ed infatti, visto che l’IMU ha un presupposto di imposta legato ad una situazione di capienza patrimoniale, riconducibile al possesso di un bene immobile, è legittimo che il Comune scelga di non costituire FCDE sull’IMU accertata, in quanto destinata -prima o poi – a essere recuperata, in ragione della capienza del cespite in base al quale è calcolata.